In questa ultima pagina del sito troverete anche alcuni brevi esempi di un'altra passione oltre a quella della Fotografia. Infatti, fin dalle Medie, ho molto amato scrivere sia Racconti che Poesie. Sotto alcune esempi di brani dal mio Romanzo. Buona Lettura e grazie della vostra gradita visita:

Racconti e Scritti

 

Mio padre manda il Treno

 

  Quello era il luogo dell’appuntamento. Lo intravedevo dal basso, ai piedi del terrapieno fra la folta vegetazione che era nata rigogliosa la primavera precedente. Fra l’alloro e i rovi s’intravedeva un varco nella recinzione lungo la ferrovia e dal quale si accedeva, pur sapendo che era vietato, ai binari che dalla stazione di Porta al Prato portavano, passando vicino all’Indiano, fra l’Arno e il fosso Macinante, alla stazione ormai secondaria delle Cascine.

 Quel tratto lo conoscevo bene; era ormai adibito solo a scalo merci e alla manovra di vagoni in transito, fra binari morti e vecchie glorie della stazione Leopolda, perdendo ogni giorno d’importanza. Spesso ci venivano ammassati vagoni oramai inservibili a causa della guerra; vagoni contorti, vagoni bruciacchiati e vecchie locomotive a vapore arrugginite, inutili ammassi di lamiera, poste come morte su binari e in molti casi avviluppate da una fitta vegetazione che vi s’infiltrava quasi a volerle proteggere ai nostri occhi. Vagoni che portavano ancora i segni del passaggio dell’uomo e della furia della guerra: poche cose dimenticate, lasciate in fretta o perse nella concitazione di un bombardamento o di chissà cos’altro. Elmetti tedeschi, giberne, scatolette contorte e ovunque putridume vecchio d’anni. Una volta anche delle ossa nella caldaia di una locomotiva, od almeno così sembrò a noi ragazzi e i più paurosi per diversi giorni non si fecero vedere nelle nostre scorribande. Vi si trovava proprio di tutto e per noi ragazzi era il luogo dove, infrangendo le regole dei grandi, si andava a passare i pomeriggi estivi, quando la calura acquietava le case e le vie e i luoghi proibiti divenivano solo nostri, al riparo degli sguardi degli adulti.

 I genitori che vivevano vicino alla ferrovia, alle Case Nuove o al Casone dei ferrovieri, erano a conoscenza del nostro vagabondare fra i binari e i vagoni morti, ed erano letteralmente atterriti dal nostro gioco, per noi del tutto innocente. Per questo le proibizioni e i castighi fioccavano, perché a causa del passaggio del fronte nell’estate del ’44, era possibile trovare nei greppi o negli anfratti una bomba americana inesplosa o una mina lasciata dai tedeschi e che ci potesse capitare quello che successe ai due fratelli Pepi, nell’estate precedente, mentre cercavano di aprire uno di questi ordigni lucenti come un bel gioco inerme.

 Il nostro maestro, il maestro Amaraschi, tutti i giorni insieme al controllo delle unghie e della pulizia personale, ci aveva messo in riga, tutti con il grembiule nero e con il fiocco colorato che indicava la classe e ci aveva mostrato durante le elementari un tabellone sul quale erano raffigurati in bell’ordine i vari ordigni bellici. Con un righello di legno passava davanti alle nostre mani che mostravano le unghie, ci storceva le orecchie per controllarne lo stato di pulizia e nello stesso tempo ci spiegava cosa non doveva essere fatto nel caso ne avessimo ritrovato qualcuno. A me tutte quelle raccomandazioni sembravano senza senso, non ero così stupido come quelli che vi saltavano sopra di un botto. In compenso però quelle carte sbiadite appese ai muri della scuola elementare, con tutti gli ordigni ben catalogati, mi servivano per conoscere meglio le bombe, le mine antiuomo, quelle anticarro, e le armi usate durante l’ultimo conflitto.

 Dopo tutto mio padre era stato, durante la guerra, primo armiere alla scuola di Guerra Aerea delle Cascine dove ad altri insegnava l’uso delle armi e delle bombe che avrebbero poi usato o sganciato dalla pancia di un bombardiere. Ed io a quell’età mi interessavo a tutto ciò che mio padre rappresentava per me in quel periodo. Papà rappresentava l’aviazione con la sua bella divisa azzurra, le bombe e gli aerei e rappresentava il mio amore per i treni. Mio padre era macchinista delle ferrovie e mandava una bella locomotiva a vapore. I due svaghi usuali erano a poco prezzo, anzi non pesavano nulla sul magro bilancio familiare: andare a trovare gli ex-commilitoni in quella bella caserma tutta di mattoncini rossi e far fischiare con le mie mani il treno di papà.

 Era l’estate del ’57 ed io ero lì in vista del varco alla sommità del terrapieno, con il fagotto di carta gialla nella quale un panino unto e odoroso di frittata era stato incartato da mia madre. La locomotiva stava arrivando, ne sentivo chiaramente gli ansimi. Mi ero attardato a causa di una improvvisa sassaiola contro i ragazzi delle Case Nuove, anziché portare la merenda a mio padre. “Se non mi sbrigo” pensai con la gola che mi bruciava per la corsa, “papà stasera per punizione non mi farà uscire a giocare”. Durante quelle calde serate estive, noi ragazzi del Casone, appena finito di cenare avevamo l’abitudine di sciamare in gruppo per giocare tutti insieme a nascondino e questo ci permetteva a volte di appartarsi negli androni semi bui delle scale con le ragazze.

 Alcune di loro non dicevano nulla se noi per gioco le cingevamo le braccia attorno alla vita e i nostri ventri si avvicinavano volutamente fino ad incontrarsi. Altre a quel gioco si ribellavano graffiando o sputando e correndo via dalle loro amiche. “Stasera” pensavo “devo per forza andare fuori a giocare; c’è la Lucia e dopo a bottiglia se ho fortuna può darsi che ci scappi di darle un bacio come ieri”. Noi maschi, girando la bottiglia messa al centro del circolo di ragazzi e ragazze, dicevamo sempre “due baci”. Poche ragazze invece facevano quella scelta e molte promettevano due schiaffi. La Lucia era una delle poche che distribuiva baci a volontà e quando stava a lei a girare la bottiglia si rimaneva tutti in trepida attesa. Mia sorella attribuiva questa colpa alla colpa della madre di lei che non era come la nostra; nostra madre, infatti, era, come si diceva allora, tutta casa e chiesa e non faceva la bella vita o meglio la vita.

Durante il nascondino correvo sempre nella sua direzione e a volte capitava di acquattarsi nella pinetina, posta al centro delle case, nel buio del cortile. Lì ansimante le stavo vicino e il cuore batteva come voleva all’impazzata. A dodici anni, anzi quasi tredici, che gli anni li compivo ad ottobre, ero per la prima volta, innamorato o almeno credevo che lo fossi e in ogni caso Lucia mi piaceva più delle altre ragazze della compagnia.

 Ancora oggi, a distanza di tanti anni, questi pensieri mi fanno tornare a mente la pelle liscia e abbronzata delle spalle, del collo e delle gambe, di quel primo fantastico oggetto di desiderio che mi conduceva alla scoperta del sesso. Lucia era venuta a Firenze dalla Puglia, da Manduria, con il padre sempre disoccupato. Lui girovagava con il suo barroccio tutto il giorno e si fermava sempre verso le sei del pomeriggio al vinaio all’angolo, da Ugo il vecchio amico di mio nonno, dove regolarmente alzava un po’ troppo il gomito e tornava a casa smussando gli angoli delle cantonate dei palazzi. A noi ragazzi faceva paura in quello stato, ma non potevamo fare a meno di ridergli dietro a debita distanza, fino alla porta di casa, che era fuori del Casone in fondo a Via Mercadante. Quando era sobrio ci sembrava anche simpatico e alla mano, con la sua parlata e le sue bestemmie in un dialetto a noi incomprensibile e con il suo barroccio, di solito vuoto, ci scorrazzava fino al Dopolavoro dei Ferrovieri, dove passavamo le mattine estive fra i pallai e i tavoli da ping-pong.

 Le malelingue del quartiere dove abitavamo, vicino ai Tabacchi, dicevano che tanto lavorava al posto suo la moglie la sera alle Cascine e per questo alle tre sorelle non mancava mai nulla. Io notavo in special modo i vestiti leggeri che Lucia portava e attraverso i quali si intravedeva un timido seno, ma già formato come una donna, i sandali che lei si levava con vezzo quando doveva saltare le case a zoppino e le gambe che ad ogni salto, senza alcuna reticenza, o a volte con finta reticenza, mostrava molto spesso.

 Le altre ragazze si tenevano le gonne strette con le mani quando saltavano, ma lei sfrontatamente no. E questo la dice lunga sul fatto che i ragazzi del Casone volevano sempre appartarsi con lei durante il nascondino o giocare solo a bottiglia quando Lucia era in nostra compagnia. Lucia si faceva baciare reclinando la testa e aggiustandosi i capelli neri, lisci e lunghi, tenuti da una passata sulla fronte; si avvicinava al vincitore sorridendo, consapevole del fatto che fosse lei la vincitrice, fino a farsi sfiorare volutamente il seno, in un timido abbraccio e un bacio sulla guancia.

 Ancora adesso sento chiaramente l’odore della sua pelle, mescolato all’odore di quelle serate estive che portavano con il vento il sentore dell’erba, della libertà dalla scuola e della mia pubertà ancora tutta da scoprire. Chiudendo gli occhi ricordo l’odore della sua bocca, quando lei vicina mi parlava, alzando la testa e tendendo il corpo nella mia direzione. Portava in avanti il petto acerbo alzandosi sulle punte dei piedi ed io riuscivo quasi a sfiorarle le labbra con una ebbrezza sconosciuta. Timido le stavo accanto non sapendo cosa dirle, per non dire cose che ancora in me non riuscivo a capire e che solo dopo anni avrei a volte e solo in parte compreso.

 

I cavalli Italiani

 

 Nell’estate del 1975 eravamo ospiti di certi amici di Zollikofen, sul lago di Zurigo, amici conosciuti durante i miei viaggi in Catalogna e che dalla Svizzera si prodigavano alla sistemazione degli esuli cileni. Il piccolo Partito Operaio Elvetico era composito e composto da compagni certamente più a sinistra dell’allora Partito Comunista Italiano. Erano sulla linea di Lotta Continua in Italia e sulle idee dell’amico Adriano Sofri, al quale proprio in quei giorni fu vietata la revisione del suo processo farsa. 

 Ma non è di questo che voglio parlare, ma di quella estate sul lago di Zurigo. La sera vennero ospiti da Peter Mosiman. Io ed Angela volemmo fare una cena italiana: spaghetti al sugo di carne, ribollita e vino Chianti. Cercammo in vari negozi della zona, fra cui diversi negozi italiani, il necessario e ci mettemmo all’opera. La cena fu un successo anche se a nostro parere le portate non avevano il sapore e l’odore di quelle di casa nostra. Il vino anche fece il suo effetto e Arnaud, un dirigente del POCH di Losanna, ci disse: “meno male che gli italiani non hanno la pelle nera”. “Perché” domandai io. E lui rispose: “vedete gli svizzeri sono razzisti, hanno paura che gli italiani portino via loro il lavoro, ma non si dice che i vostri connazionali vanno a fare i lavori più umili che lo svizzero mai andrebbe a fare. In compenso se l’italiano si integra, gli uomini si levano la coppola e imparano il tedesco, le donne smettono di vestirsi di nero, possono essere scambiati per elvetici. Sono convinto che lo svizzero alla vista di una pelle nera che gli ruba il lavoro sarebbe ancora più razzista e stronzo”.

 E poi di seguito: “tu ed Angela che parlate francese, un po’ di tedesco, non avreste problemi, sareste scambiati per intellettuali ticinesi o dei cantoni francofoni, ma se foste neri gli svizzeri non vi accetterebbero”. E concluse con un sorriso e un alzata di bicchieri: “Almeno voi italiani non siete un popolo per natura razzista!”.

 Io cercai di far capire ad Arnaud che non esiste un popolo per sua natura non razzista. Sono le situazioni storiche che lo rendono tale. Bastava andare in quei tempi a Bologna, Torino e Milano dove si potevano osservare i nefasti prodromi del razzismo anche in Italia. Come gli abitanti del nord Italia trattavano, e trattano forse ancora, i lavoratori del sud che con le loro valige di cartone legate con lo spago approdavano nelle città industriali del nord.

 E poi conclusi: “se un giorno si arriverà ad avere una immigrazione di altri popoli, sono convinto che l’italiano medio non si discosti molto da come la pensa lo svizzero nei confronti dei lavoratori italiani. Allora il razzismo italico verrà fuori con tutto ciò che ne consegue”. E terminai con Jorge Amado, quando nel suo libro Sudore parla della schiavitù in Brasile abolita solo nel 1988: “sai qual è Arnaud la cosa migliore del mondo? Il cavallo. Se non ci fosse stato il cavallo, i bianchi avrebbero montato i negri. Per questo hai pienamente ragione: meno male che gli italiani non hanno la pelle nera”.

Dopo mezzo secolo quella mia idea, detta così a pelle durante una cena fra amici, si è avverata. Non siamo immuni dal tarlo del razzismo. E meno male che ci sono i cavalli anche nella “civile” Italia.

 

 

 Un Abbraccio

 

 Un incontro a teatro mi ha fatto capire il dramma dell’impossibilità del dare, del donarsi agli altri e di “comunicarsi” al mondo. Oggi ho portato la classe, quella quinta che con fatica sto conducendo alla maturità, al teatro Garibaldi. Ho incontrato un collega che non vedevo dal giugno scorso e forte mi ha abbracciato. Poi mi ha detto che ha saputo di me e delle mie scelte politiche e che si ricordava delle discussioni che spesso si prendevano insieme, lui cattolico ed io ateo e comunista, nel rispetto reciproco. Adesso insegna a Pontassieve e l’ho incontrato per caso e con piacere.

 Il corpo dice spesso cose che sono inutili alla voce. Un abbraccio, un gesto, un contatto fisico reciproco è sempre così importante perché ti rende partecipe della comunità più vasta dell’umanità tutta. Chi ha perso la fisicità dei gesti e del sentire, ha perso il gusto della vita, il gusto di dare agli altri, e per paura di dare e di ricevere si rinserra nella sua solitudine.

 Si prepara inconsapevolmente alla morte, alla scomparsa del corpo come nelle povere ragazze anoressiche.

 Credo che l’amore non possa essere solo cerebrale, ma una parte di intimità del gesto si deve conservare nel tempo a dispetto del divenire del tempo. Si dice che l’uomo nasce e muore solo. Non è vero. Alla nascita l’intimità con la madre è totale, è la vita che poi ci rende estranei agli altri e sempre più soli. Sforziamoci quindi di rimanere un po’ bambini e la nostra vita ne trarrà beneficio. Un abbraccio è terapeutico. Strana vita sono costretti a fare coloro che non sanno di averne bisogno e non apprezzano di comunicare così con gli altri. Per questo scrissi a suo tempo queste poche righe:

 

Ho passato

i miei anni

nell’impossibilità

di amare

e il tempo mi ha corroso

e ricucito attento

in un mozzicone

di terra e di gelo

Oggi

inutile a te

ti ho perso per sempre

 

 

Per questo sono Ateo

 

  Stamani, quando sono sceso in paese, nevischiava. La SITA che mi avrebbe dovuto portare, come tutte le mattine, a Figline era in ritardo. In paese il solito mercato del giovedì, disteso sotto i tigli ormai spogli e un nevischio fine fine, sembrava infreddolito e i pochi compratori svogliati evitavano di soffermarsi davanti alle bancarelle. Non c’erano i consueti capannelli di anziani sul ponte dell’Isone, lì all’angolo di quello che in paese chiamano il “giro del baccalà” e dove di tanto in tanto si trovano i polacchi a vendere ricordi a buon mercato della rivoluzione di Ottobre.

  In autobus sono saliti due contadini infreddoliti, bestemmiando contro il tempo che non gli aveva permesso di cogliere le ultime olive rimaste, si sono messi a discutere con l’autista dell’olio e della resa del raccolto e di quanto hanno speso al frantoio, sciorinando percentuali e costi e fatiche diaboliche per ottenere un po’ di prodotto. Le mani avvezze al lavoro erano vecchie come le loro facce e mi sono trovato smarrito come quando al partito, parlando con lavoratori e contadini e vecchi compagni, io cerco di fare un discorso politico e loro vanno sempre sul pratico, sul quotidiano, sul concreto. Mi rendo conto così come tutta la vita comune e minuta dei gesti del lavoro e della fatica quotidiana, mi sia estranea. Entra in me da una porta che è sempre aperta ma sempre teorica e priva di praticità. Allora mi rendo conto che in fondo questa che mi si para davanti è la vera essenza della vita. Non il disquisire, no la dialettica, il confronto, le tavole rotonde sulla condizione operaia, sulla disoccupazione e quant’altro, sono vere. Altrove sta l’essenza dell’essere umano.

  Io però sono solo un piccolo intellettuale che cerca di capire come va il mondo e che mentre cerca di far ciò, si pone fuori del mondo e dalle sue cose essenziali. Quanto olio si è fatto, non si getta il cemento se no gela, la strada è ghiacciata, l’annata è stata buona per il vino. Il percorso della vita di oggi, dove si parla di mercati globali, di finanza mondiale, di Internet e di realtà virtuali, ha perso il contato con quello che ancora di vero e materiale c’è in noi e che ci rende irrimediabilmente uomini legati alla terra e agli atomi di calcio o di fosforo che so, di cui siamo fatti e da cui non possiamo ne dobbiamo prescindere.

  E questo è uno dei motivi per cui sono, dall’età di 12 anni, ateo. Ne parliamo però un’altra volta.

Mio Nonno Gaetano

Mio nonno Gaetano, mi raccontava sempre delle belle favole sugli Atticciati, la famiglia della mia bisnonna. Mi parlava di quando, lui piccolo (era nato nel 1884), terzo di tre fratelli, andava per la campagna di Rapolano e tutti si toglievano il cappello, dicendo: “Salute Signorino”. Mi raccontava delle vigne e della fattoria degli Atticciati che abitavano nel palazzo di famiglia, sulla piazza di Rapolano. La villa e la fattoria con decine e decine di poderi tutti a mezzadria. Le grandi botti allineate in cantine senza fine e di quando morti entrambi i genitori a pochi giorni l’una dall’altro, il tutore divenne lo zio: l’arciprete di Rapolano. Mio nonno non l’ho mai sentito bestemmiare, anche se era diventato socialista durante il biennio rosso dopo la prima guerra mondiale. Il suo unico modo d’imprecare era: accidenti alla zia Calliope e all’Arciprete di Rapolano. Perché sembra che di combutta abbiano venduto ad uno ad uno tutti poderi della fattoria, i gioielli, i quadri, i mobili e le suppellettili. Di comune accordo poi scapparono in Francia lasciando i tre giovani eredi nella miseria più nera. Alla maggiore età mio nonno non possedeva “altro che gli occhi per piangere”, come terminava sempre le sue fantastiche e tragiche storie di famiglia, e fu mandato al fronte a fare il suo dovere sul Carso. Diventò poi socialista e durante il ventennio fascista, lavorando come capo operaio in ferrovia, non prese mai la tessera del fascio. Abitava a Firenze nel Casone dei Ferrovieri e i Fascisti non gli torsero mai un capello perché era un omone di un metro e ottanta. Però tutte le volte che una personalità importante veniva a Firenze, due gendarmi si presentavano alla porta, gli facevano prendere un po’ di biancheria e lo portavano in gattabuia per due o tre giorni. E cosi sempre fino al 25 Luglio del 1943.

Il sogno di Parigi

Questa notte si è ripetuto il sogno di Parigi. E’ sempre uguale o quasi da molto tempo. Forse è il bisogno di estraneità che esce in sogno come valvola di sfogo alla giornata di ieri. Abito, con altri, come se fossi uno studente universitario, un piccolo appartamento in una strada secondaria di una zona anonima. Io so che sono a Parigi, ma niente di noto della capitale francese, nel sogno appare. L’appartamento è piccolo e si affaccia sulla strada con due finestre un po’ arretrate sul tetto spiovente. Uscendo dal portone e prendendo il primo vicolo a destra e poi di nuovo a destra ci si immette in una strada piena di luci, bar e negozi. Questa, dopo qualche centinaia di metri, giunge ad una grande piazza rotonda nella quale si trova la fermata della metro. Non ho mai preso quel metro per arrivare nel centro di Parigi, ma nel sogno percorro tutta la strada fino al solito bistrot e dentro, fra fumo e rumore di tazzine, ritrovo amici e conoscenti al tavolo dietro la vetrina che guarda la strada piena di passanti. La conversazione si svolge in francese. Io sogno in francese e quando mi sveglio bruscamente, questo sogno lo devo fare sempre verso la mattina al suono della sveglia che mi riporta alla realtà, ho ancora nella testa le parole di una discussione, sempre diversa, che si stava facendo sull’architettura, sull’arte o sulla politica. Mi sento me stesso a parlare di cose distanti in una lingua diversa, di cose immateriali e per questo affascinanti perché non coinvolgono i bisogni materiali del vivere comune. Con il risveglio svaniscono questi suoni e gli occhi con difficoltà si abituano alla stanza semi buia, che fino a qualche momento prima erano immersi nei particolari di quel mio conosciuto, ieratico, bistrot parigino, tanto che potrei subito descrivere ad una ad una le bottiglie poste dietro il bancone alto e di marmo, al quale stanno appoggiati un uomo ed una donna sorseggiando un caffè, rigirandosi nelle mani zollette di zucchero e guardandosi, io suppongo, con languida intimità.

Come vorrei rivivere attimi del mio tempo quando con i libri sotto braccio andavo all’Università e poi, Angela, ti incontravo e con la forza dei giovani dispiegavo la mia, la nostra vita futura fra le pieghe del tempo e del destino, progettando viaggi in soggiorno con una carta spiegata al mondo. Strana condizione quella di divenire adulti e dimenticare quelle sensazioni giovanili che adesso deridiamo e non condividiamo nei nostri figli. Ma io non voglio perdere la memoria della mia gioia e della mia vigoria a volte infantile.

 

Ricordi Infantili

Ripenso spesso alla mia fanciullezza ed al mio trenino elettrico, di quei lontani Natali passati nella casa vicino ai Tabacchi, dove vivevamo con il nonno materno prima di avere dalle ferrovie un alloggio al Casone. La casa era modesta, al numero 22 ricordo. Era un villino degli anni venti, ma di quelli più poveri al confronto di altri. Noi vi abitavamo al pian terreno: una grande cucina con la stufa subito a destra della porta e dove la mamma cucinava con il carbone che papà portava, credo furtivamente, dalle ferrovie. La camera dei miei genitori che dava sulla strada e quella di mio nonno Gaetano che guardava il giardino, l’orto come noi dicevamo. Un piccolo bagno dal quale si accedeva ad un sottoscala dove erano riposte le cose ed i ricordi dello zio Carlo, la cui fotografia in divisa di marinaio campeggiava in camera del nonno e che quando ero solo mi faceva paura giacché gli occhi dello zio morto mi seguivano ovunque nella stanza. Ed infine l’orto con il suo susino e l’altalena appesa, opera di mio padre, e il roso lungo il muro che ci divideva dal cantiere accanto. Il roso della mia fanciullezza che mi proteggeva dalle ire di mia madre e dalle quali mi salvava solo mio padre al ritorno dal lavoro. Lo vorrei qui il mio trenino Rivarossi, con la locomotiva come quella di mio padre e i vagoni, gli scambi e la gioia nel montarlo e nel mandarlo in quegli interminabili pomeriggi invernali, da ragazzo in Via Mercadante.